AlbumArte
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CHASING BOUNDARIES

CHASING BOUNDARIES

CAPITOLO I – TEL AVIV (2016, 15’)
CAPITOLO II – VILNIUS (2016, 35’)
CAPITOLO III – BELFAST (2017, 32’)
CAPITOLO IV – SCUTARI (2019, 45′)

Scritto e diretto da Zaelia Bishop ed Emanuele Napolitano

Versioni originali inglese con sottotitoli in italiano
Produzione AlbumArte e Bangalore Video 

Chasing Boundaries è una serie di documentari sull’arte contemporanea orientati al superamento del tradizionale metodo narrativo e della struttura lineare e autoconclusiva in favore di una piattaforma aperta ai nuovi modi di percepire concetti ed informazioni. La serie, è stata sviluppata dagli artisti Zelia Bishop ed Emanuele Napolitano con l’intento di descrivere la condizione del fare arte all’interno di un’opera che si avvicina alla video arte.  L’obiettivo del progetto è altresì quello di raccogliere differenti voci da terre lontane, testimonianze di artisti che quotidianamente si trovano a dover operare in condizioni difficili o impossibili, riuscendo a trasformare queste esperienze in produzione artistica. Ogni intervista pone lo spettatore nella condizione di osservare frammenti di momenti naturali posti in sequenza e produrre una propria esperienza personale, non si tratta di assistere a un ritratto ideologico dei soggetti filmati ma semplicemente essere presenti ed osservare le cose mentre si svolgono. 

L’EVOLUZIONE DEL PROGETTO 

I Capitolo | Chasing Boundaries Tel Aviv (15’, 2016)
A
rtisti intervistati: Meital Katz Minerbo, Eyal Yehuda, Gal Weinstein, Assaf Abutbul, Maya Attoun, Nivi Alroy.
Proiezioni: Festival de Cannes | Short Film Corner 2016AlbumArte Roma; ArtVerona 2017 | sezione i8 – spazi indipendenti.
Talk: Valentina Gioia Levy e Paola Ugolini (AlbumArte, 19 aprile 2016)

Il primo capitolo è stato girato in Israele, dove gli artisti sono attualmente impegnati nel rispondere a questioni politiche, storiche e religiose utilizzando pratiche artistiche sperimentali e dinamiche. Ogni intervista è allacciata ad immagini di vita cittadina e scenari naturali, per sottolineare il rapporto tra arte, vita, forze naturali e condizione umana. Gli artisti intervistati nel corso della serie di Chasing Boundaries sono specificamente impegnati nel processo di riprogrammazione e rielaborazione del concetto di pratica artistica, occupandosi di ciò che costituisce l’immagine contemporanea e ciò che il contemporaneo è in grado di produrre. Il film è stato selezionato all’internodel Short Film Corner – Festival del Cinema Di Cannes 2016.

Testo
Chasing Boundaries di Paola Ugolini (dal catalogo Chasing Boundaries, 2017)
«Chasing boundaries” ovvero cercare di definire, intrappolare e inseguire i labili e mutevoli confini geografici di quei pezzi di mondo, che a causa della loro storia, continuano a subire i contraccolpi del passato o le incertezze di un future mutevole.
Zaelia Bishop ed Emanuele Napolitano sono due video-artisti romani che hanno deciso di realizzare un prodotto ibrido, suddiviso in svariate tappe, ovvero un “in between” fra opera narrativa e documentario, con cui raccontare, attraverso gli occhi e la sensibilità degli artisti, le conquiste sociali e politiche di realtà complesse e fragili come quelle di Israele e di Vilnius in Lituania. Il paesaggio semi-desertico e arido di Israele sfila come una quinta teatrale dai finestrini della macchina, il cielo azzurro e le colline basse si alternano al caos del traffico cittadino e gli artisti, scelti fra già consolidati ed emergenti, come novelli Virgili, accompagnano Zaelia ed Emanuele alla scoperta di una realtà complessa e affascinante. Meital Katz Minerbo, Eyal Yehuda, Gal Weinstein, Assaf Abutbul, Maya Attoun e Nivi Alroy sono gli artisti intervistati che raccontano come quotidianamente devono fare i conti con una realtà difficile, fortemente politica, una realtà fatta anche di frontiere che avanzano, di muri che separano, di morte e di violenza ma anche pulsante del desiderio di vita e di libertà che solo le società giovanissime sembrano ancora avere con quella preveggenza, talvolta fastidiosa, che solo gli artisti posseggono. Uscire dai confini della nostra piccola Italia per confrontarsi con delle realtà diverse è stato ovviamente l’impulso primario che ha spinto i due autori ad intraprendere il viaggio in questi luoghi apparentemente difficili e poi anche l’idea di poter realizzare una mappa fatta di città molto lontane fra loro e poco esplorate dal mondo dell’arte contemporanea, per avere una visione diretta, senza il filtro del Museo o del curatore, quindi più spontanea e senza glamour, della pratica atistica in questi territori di confine. Dopo Israele la seconda tappa è Vilnius la capitale della Lituania, diventata indipendente dal 1991 quando l’URSS si è frantumata e i vari stati che forzosamente coesistevano hanno reclamato la loro indipendenza. Il girato si apre con il traffico di una higway per poi continuare con la studio visit ad una delle artiste femministe del gruppo Coolturistas che attraverso il loro lavoro cercano di sensibilizzare la società sulle profonde ineguaglianze che ancora persistono soprattutto nei confronti delle donne artiste e dei gruppi omosessuali. Anche le Coolturistas, come le artiste femministe italiane, lavorano attraverso la decostruzione del linguaggio e la body art. Deimantas Narkevicius illustra come per un artista la situazione sia cambiata dopo il 1991 quando finalmente è stato possibile viaggiare e quindi ad accedere a conoscenze diverse rispetto a quelle di regime. Anche argomenti considerati tabù come la sessualità sono diventati, per la generazione più giovane di artisti, terreni di indagine inesplorati da scandagliare anche con una certa dose di ironia. Ritorna sempre in tutti gli incontri il senso di deprivazione vissuto durante gli anni del blocco sovietico, l’impossibilità di sapere cosa succedeva oltre cortina e la sete di informazione, di vedere, di poter ammirare i capolavori del Rinascimento italiano dal vivo e non solo attraverso le immagini di qualche libro d’arte approvato dallo Stato. Questa di Vilnius è quindi la seconda tappa di un viaggio più lungo in cui gli autori, sospendendo il giudizio, traccino la geografia di un mondo in costante mutazione ».

II Capitolo | Chasing Boundaries Vilnius (2016)

Artisti intervistati:  Laima Kreivytė, Julijonas Urbonas, Deimantas Narkevičius, Živilė Minkutė, Mindaugas Navakas, Linas Jusionis, Antanas Šnaras. Realizzato con il sostegno del Lithuanian Culture Institute.
Proiezioni: AlbumArte, Roma; ArtVerona 2017 | sezione i8 – spazi indipendenti
Talk: Benedetta Carpi De Resmini (AlbumArte 18 gennaio 2017)

Il secondo capitolo è stato girato in Lituania. In questa seconda produzione, realizzata grazie anche al sostegno del Lithuanian Culture Institute, Bishop e Napolitano sono impegnati ad intervistare artisti di base in Lituania coinvolti nel ripensare il contemporaneo, dalla modalità con cui esprimerlo a ciò che esso è in grado di produrre. Gli artisti intervistati, che rappresentano oggi i soggetti più interessanti della scena artistica lituana, alcuni anche a livello internazionale, sono artisti strutturati, ben preparati, interessati, appassionati, recettivi, curiosi. Il Paese, indipendente solo dal 1991, ha ancora viva la memoria del proprio passato prossimo e del passaggio difficile e relativamente veloce alla libertà intellettuale e artistica.

Testo
Vilnius, una città che vive di Cristina Cobianchi (dal catalogo Chasing Boundaries, 2017)
Nel giugno del 2015, AlbumArte è stato invitato a Vilnius dall’Istituto di Cultura del Ministero della Repubblica della Lituania, un giovane Paese che pensa di investire per il proprio futuro attraverso la cultura e l’arte, anche contemporanea. Arrivando in quella bellissima ed elegante capitale ho percepito subito un grande fermento e ammirato la presenza attiva di moltissimi giovani. Erano giovani i direttori dei musei, il pubblico dei teatri, delle mostre e chi dirigeva spazi indipendenti come il nostro, perché lì quella che è quasi sparita è la mia generazione, che nella vecchia e assopita Europa occidentale, invece, ancora ricopre spudoratamente tutte le cariche che contano.
Non solo ci hanno invitato, ma ci hanno preparato un’agenda fittissima di appuntamenti con artisti e rappresentanti della cultura locale. A ogni appuntamento gli interlocutori si dimostravano molto interessati, ci spiegavano dettagliatamente il loro lavoro e il loro punto di vista, mettendoci al centro della loro massima attenzione. Gli incontri con gli artisti sono stati particolarmente ricchi e appassionanti, ecco perché ho subito pensato che Vilnius sarebbe potuto essere un affascinante ed esaustivo capitolo di Chasing Bounderies, il lavoro che gli artisti romani Zaelia Bishop e Emanuele Napolitano, stavano portando avanti e che avevamo presentato pochi giorni prima ad AlbumArte, proiettandone il primo capitolo che riguardava la scena artistica israeliana. Chasing Bounderies è un progetto secondo me molto stimolante, perché oltre ad essere qualcosa che va al di là del documentario, del video e del film d’artista, offre una preziosissima testimonianza della scena artistica dei Paesi che per la normale accezione  dell’approccio al mondo dell’arte, sono meno conosciuti. Quello che trapela da questo capitolo dedicato a Vilnius, è che gli artisti intervistati, che rappresentano oggi i soggetti più interessanti della scena artistica lituana, alcuni anche a livello internazionale, sono artisti strutturati, ben preparati, interessati, appassionati, recettivi, curiosi. Il Paese, indipendente solo dal 1991, ha ancora viva la memoria del proprio passato prossimo e del passaggio difficile e relativamente veloce alla libertà intellettuale e artistica. Il lavoro della generazione che nel ’91 era già adulta, testimonia quella realtà, le speranze e le differenze tra prima e dopo. Gli artisti più giovani quasi mai ne parlano direttamente nelle loro opere, sono andati avanti, ma alcuni ne mostrano tracce delicate, ma indelebili e siccome queste tracce sono state recepite come gli adulti attraverso i loro racconti le hanno passate a loro, che erano bambini o adolescenti, spesso sono tracce che si trasformano in qualcosa di onirico o in archetipi fondamentali, anche nostri, del secolo breve. Essere coinvolti e affiancare Bishop e Napolitano in questa impresa è stato per noi un grande arricchimento, un impegno che abbiamo deciso di portare avanti per tutti i capitoli, come loro li chiamano, di Chasing Bounderies, che continuerà in altre città dove esista un fermento artistico vitale, mediante un dialogo aperto e uno scambio fertile e dinamico, che passa attraverso la visione degli stessi artisti.

III Capitolo | Chasing Boundaries Belfast (2017)
Artisti intervistati: Alastair MacLennan, Peter Richards, Justine McDonnell, Liam Crichton, Martin Boyle, Anne Marie Taggart.
Video a cura di Manuela Pacella, coordinamento Micol Di Veroli
Proiezioni  ArtVerona 2017 | sezione i8 – spazi indipendenti; Galerie Délire en Formation, Parigi (in collaborazione con Flaq Paris); AlbumArte, Roma.
Talk: Paola Ugolini (Galerie Délire en Formation – Parigi, 20 ottobre 2017); Manuela Pacella e Paola Ugolini (AlbumArte, 14 novembre 2017)

Belfast è una città magica, in grado di svelare i suoi segreti solo a coloro che le si avvicinano con silenziosa curiosità, senza troppi preconcetti riguardo al suo lacerante passato, quello dei Troubles, per lo più conosciuto attraverso i mass media. Tra le sorprese maggiori vi è lo scoprire una scena artistica molto fervida in cui gli artisti e i diversi spazi espositivi si sostengono l’un l’altro creando un clima culturale altamente collaborativo.
Gli artisti selezionati per il terzo capitolo di Chasing Boundaries, curato da Manuela Pacella sono di diverso calibro e generazione. Con una sola eccezione nordirlandese, provengono da Scozia, Irlanda e Galles, a dimostrazione di come Belfast sia un incredibile catalizzatore grazie alla Ulster University, alla possibilità di avere uno studio all’interno di strutture come Flax Art Studios o Platform Arts e di esporre in spazi espositivi molto dinamici, prevalentemente no profit e co-diretti da gruppi di artisti. 

Testo
Belfast Calling di Manuela Pacella (dal catalogo Chasing Boundaries Belfast, 2017)

Belfast, I live and breathe you.
Belfast, you are etched deep within my soul.
Belfast I have become you and carry the stink of your corpse like a cause
.

A.F.N. Clarke, Contact, 1944 

Il mio rapporto con l’Irlanda del Nord risale al dicembre del 2011.
Ebbi modo allora di visitare per la prima volta Belfast dove mi recai per qualche giorno, per motivazioni lavorative. Della città sapevo all’epoca ben poco, quello che probabilmente un po’ tutti ricordiamo o sappiamo per vie massmediatiche riguardo al conflitto nordirlandese.

Non avevo assolutamente idea di cosa mi aspettasse in termini di architettura, paesaggio, usanze e caratteri e rimasi subito incantata, in parte anche grazie alla magia che l’assenza di aspettative porta con sé.
Non solo il meraviglioso verde che ricopre le colline intorno alla città o le testimonianze assai evidenti di una passata e prolifica industria navale – le enormi gru della Harland and Wolff, industria che ha dato i natali al Titanic –; non solo stralci di architetture vittoriane intatte come la serra dei Giardini Botanici e l’usanza di improvvisare musiche irlandesi in molti dei pub più antichi della città ma, soprattutto, le persone.

Notai immediatamente un misto di malinconia e forza, di dolore e paura, nei loro occhi come nel loro linguaggio corporeo. Questo mi portò sin dall’inizio ad avvicinarmi a loro, come alla città, con maggior tatto, con silenzioso rispetto e un’incredibile curiosità che ancora oggi, dopo quasi 6 anni, ancora è ben lontana dall’essere saziata.

Piuttosto che fare domande cercai risposte nella città stessa, percorrendola a piedi e senza l’uso delle mappe, dove non sono di certo tracciati i confini fisici di quei muri chiamati Peace Lines, in modo particolare del più alto e ‘visitato’ dai turisti, che divide la protestante Shankill Road dalla cattolica Falls Road. A piedi, in una silenziosa mattina di dicembre, procedendo lentamente poiché le strade erano ricoperte di un sottile strato quasi invisibile di ghiaccio, da loro chiamato Black Ice, mi imbattei dapprima nell’abbandonato Palazzo di Giustizia di Crumlin Road (in seguito seppi del suo collegamento sotterraneo alla prigione antistante, soprannominata l’Alcatraz d’Europa) e, con una certa ingenuità, in un quartiere colmo di murali e memoriali, dalle case basse e da terreni semiabbandonati che all’epoca non sapevo affatto fossero i luoghi dove vengono costruiti i Bonfires che vengono dati alle fiamme la notte tra l’11 e il 12 luglio di ogni anno.[1] E poi, d’improvviso, un muro altissimo e lunghissimo diede risposta alle molte delle prime domande. Chiesi a un tassista che si era fermato lì con alcuni turisti (tappa d’obbligo dei tour) se c’era la possibilità di andare dall’altra parte e mi disse di proseguire e avrei trovato un cancello, anzi un doppio cancello aperto, per andare dalla parte opposta, cattolica. Seppi solo in seguito che quei cancelli (che sembrano solo dei ricordi di un lontano passato) vengono ancora chiusi tutte le sere.
Da allora feci della pratica del camminare attraverso le strade di Belfast il mio principale metodo conoscitivo della città, ogni volta che ne feci ritorno, assai di frequente e anche per lunghi periodi. Se già di per sé è utile anche nella propria città, per poter meglio assaporare i dettagli, nel caso di Belfast camminare ha il sapore di una disciplina che sviluppa l’intuito e in cui l’esigenza di essere sempre all’erta è al massimo. Si intuisce quando è meglio evitare una zona e non fare strane scorciatoie; si capisce se è il caso o meno di scattare foto o di essere troppo isolati in una determinata ora; si sa in maniera evidente in quale zona si è per le bandiere issate quasi di fronte a ogni casa o come addobbi ‘festosi’ tra i tralicci.

Dopo mesi e anni di osservazione e letture di libri di storia come di avide visioni di documentari, filmini d’archivio e film sull’argomento, sono stata pronta a porre alcune domande e a determinare se e a chi poterle fare.
Mi ha di certo aiutato la frequentazione del mondo dell’arte perché il lavoro stesso degli artisti mi ha diretto verso alcune risposte o mi ha fatto capire chi fosse più coinvolto con vicende personali o chi meno anche per un dato generazionale.

È infatti più che normale che le giovani generazioni siano in una fase di oblio o negazione, desiderando giustamente essere interpellati per il loro lavoro in generale che mira a travalicare i confini del loro territorio. Come è del tutto lecito ritenere che una persona esterna, come me, non possa capire del tutto.

Questa sensazione, direi quasi frustrazione, nel non riuscire mai ad avere un quadro generale e completo ma di perdere di continuo dati, memoria e soprattutto il diritto di saperne qualcosa è probabilmente il motivo per cui il rapporto con l’Irlanda del Nord e i nordirlandesi rimane sempre aperto, mai soddisfatto, mai sazio. 

Un’altra motivazione che mi continua a far tornare in questo luogo è l’estrema accoglienza delle persone e la caparbietà che caratterizza i loro caratteri. Se, infatti, è vero che molti sguardi sono sopraffatti da un velo di malinconia, è pur vero che la lotta li caratterizza. Poter continuamente costatare come in luoghi ancora così divisi (fisicamente e non) ci possa essere così tanta voglia di fare e così tanta cooperazione ha sempre donato uno sguardo fresco a chi proviene da un paese e una città che probabilmente danno troppe cose per scontate e, soprattutto, vivono in un clima di costante rassegnazione. 

Sin dagli anni Novanta, di certo ancora anni di fortissime tensioni, gli artisti di Belfast hanno cercato di creare una situazione prolifica in termini sia di produzione sia di esposizione del loro lavoro. Spazi come i Flax Art Studios o Catalyst Arts nascono per volontà degli artisti stessi e ancora alimentano il tessuto culturale della città e determinano non solo la possibilità di esporre ma anche di poter sviluppare spiccate doti direzionali e curatoriali. 

La Ulster University, grazie ad artisti del calibro di Alastair MacLennan (esponente di spicco della scena performativa nordirlandese) è diventata un luogo non solo formativo per gli artisti di base a Belfast ma meta ambita per molti artisti internazionali, rendendo quindi la città un luogo molto proficuo. È stato quindi un onore poter intervistare MacLennan per il terzo capitolo di Chasing Boundaries,  progetto di Zaelia Bishop ed Emanuele Napolitano. 

Quando venni coinvolta dal duo romano per poter prima discutere se e come realizzare il video a Belfast, da una parte ne fui lusingata in quanto riconosciuta nel mio ruolo di quasi ‘esperta’ di quella determinata scena artistica e storica; dall’altra ho notato anche un po’ di chiusura, come se mi ritenessi anche io un pochino nordirlandese e non mi piacesse che il luogo venisse scelto per la sua lacerante storia.

Proprio per questa mia iniziale reazione ambivalente decisi che la mia partecipazione non solo era obbligata ma doveva essere più che attiva, cercando di essere un ponte tra due realtà molto diverse, da una parte proteggendo quella che oggi ritengo la mia seconda casa, dall’altra svelando ai miei compagni di viaggio i segreti che rendono città e persone così speciali.

Con grande felicità posso dire che l’esperienza sia stata altamente proficua per tutti i soggetti coinvolti e ha confermato quanto sia importante ricoprire questo ruolo che rivesto da qualche anno. 

Gli artisti selezionati per Chasing Boundaries – Belfast sono di diversa generazione e provenienza: Alastair MacLennan, scozzese di origine, approdato a Belfast e alla performance dopo diversi studi e spostamenti (prevalentemente negli Stati Uniti e in Canada); Peter Richards, gallese, performer, fotografo e direttore della Golden Thread; Anne Marie Taggart, unica nordirlandese del gruppo, proveniente da Omagh – luogo di uno dei più tragici e recenti attentati dei Troubles – scultrice che utilizza materiali di scarto per comporre nature altamente simboliche; Liam Crichton, scozzese, che fa della pratica della scultura sonora il suo principale metodo espressivo; Martin Boyle, originario del Donegal, in Repubblica d’Irlanda, che per anni ha fatto dell’ironia e del sottile confine tra realtà e finzione il suo principale filtro critico; la giovanissima performer dublinese Justine McDonnell, attirata a Belfast proprio per la solida scena performativa.
Tutti hanno studiato alla Ulster, tutti hanno studi presso strutture come Pltaform e Flax Art, molti hanno co-diretto Catalyst. Se è vero che a Belfast non c’è mercato artistico ed è anche molto difficile trovare occasioni per uscire fuori dai confini, è anche vero che non manca assolutamente sostegno e capacità collaborative tra i vari soggetti di questo specifico sistema dell’arte.

Ciò che manca, ossia quello di farsi conoscere come realtà all’esterno, può essere realizzato grazie alla scoperta di questo territorio da parte di operazioni come quella di Bishop e Napolitano.

Sono quindi molto felice di aver contribuito ancora a svelare un piccolo tesoro che ha bisogno solo di essere trovato per brillare di una luce che invade anima e corpo dei ricercatori. 

Credo che il prodotto finale del duo romano restituisca al meglio ogni singolo aspetto sopra citato, attraverso le parole, i gesti e gli sguardi degli intervistati come grazie ai percorsi in macchina e a piedi per la città. 

Mi è stato chiesto più volte come mai Belfast fosse diventata per me così importante.
Non sono mai riuscita a dare una risposta idonea. L’ho finalmente trovata nelle parole di Alastair al quale venne spesso domandato lo stesso: “Qui le persone sono calorose; se cadi per strada reagiscono; in altri luoghi non è così”. Mai frase è stata per me più semplice ma anche più dolorosa perché vera. In molti luoghi regna l’indifferenza, qui l’aiuto reciproco. E non si può fare a meno di amarli per questo, perché immediatamente ti rimandano indietro la brutta realtà quotidiana in cui molto vecchio Occidente vive, dove maschere di gentilezza coprono volti privi di calore.


[1] Ogni 12 luglio i protestanti commemorano la battaglia di Boyne de 1690 in cui Guglielmo III d’Inghilterra (Guglielmo d’Orange) sconfigge Giacomo II, assicurandosi, così, il dominio sull’Irlanda. La ricorrenza è celebrata con marce orangiste che partono da ciascun quartiere per unirsi poi in un unico corteo in centro, presso la City Hall. La notte precedente ogni quartiere protestante appicca il fuoco a piramidi di bancali in legno e ruote di gomma alte decine di metri e che recano, in cima, la bandiera irlandese.

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IV Capitolo | Chasing Boundaries Scutari (2019)
Artisti intervistati: Driant Zeneli, Lek Gjeloshi, Donika Çina e Alket Frasheri.
Video a cura di Adrian Paci, coordinamento Micol Di Veroli
Proiezioni  AlbumArte, Roma.
Talk: Adrian Paci e Paola Ugolini (AlbumArte, 16 marzo 2019)

Testo
Chasing Boundaries – Scutari di Micol Di Veroli (dal catalogo Chasing Boundaries Shkodër, 2019)

Chasing Boundaries è una serie di documentari sull’arte contemporanea diretti da Zaelia Bishop ed Emanuele Napolitano e coordinati da Micol Di Veroli, sviluppati con lo scopo di descrivere la condizione di fare arte all’interno di  un’opera che si avvicina alla videoarte e tende a superare il metodo narrativo tradizionale e la struttura lineare a favore di una piattaforma aperta, questo per scoprire nuovi modi di percepire concetti e informazioni. L’obiettivo del progetto è anche quello di raccogliere voci diverse da terre lontane, artisti che lavorano ogni giorno in condizioni difficili o impossibili, riuscendo a trasformare queste esperienze in produzione artistica. Ogni intervista mette lo spettatore nella posizione di osservare frammenti di momenti naturali e ricavarne così un’esperienza personale. Questo per osservare ogni fenomeno nel suo  verificarsi.
Per il quarto capitolo di Scutari in Albania, il curatore Adrian Paci ha messo a disposizione per le interviste la sua Art House, una casa d’infanzia trasformata in un luogo di sperimentazione e piattaforma di supporto per artisti locali. Gli artisti invitati Driant Zeneli, Lek Gjeloshi, Donika Çina e Alket Frasheri hanno offerto quattro visioni creative totalmente eterogenee che si occupano di vari aspetti sociali e creativi come l’illusione e il fallimento, l’identità nazionale e la religione, la paura e la speranza.
I temi allargano la discussione alla connessione tra identità sia personale che nazionale e alla mobilità e all’impermanenza all’interno dello spazio reale e mentale. L’odierna Albania e l’arte contemporanea suggeriscono assieme nuovi modi di pensare, offrono nuovi paesaggi che sviluppano opinioni e un nuovo spettro di idee. Gli artisti quindi, in qualità di cronisti sociali, possono renderci più consapevoli della condizione umana. Essi riflettono sul momento storico e proiettano nella comunità una consapevolezza del momento, vivono e registrano ogni aspetto del nostro mondo e, soprattutto, cambiano il modo in cui vediamo il mondo. La loro ricerca può servire come mezzo per raccogliere ricordi, il loro ruolo è quello di rammentarci di riflettere sulla nostra realtà e sulla storia, ed al contempo stabilire se la nostra realtà debba o meno essere cambiata.
Le opere interdisciplinari di Driant Zeneli, Lek Gjeloshi, Donika Çina e Alket Frasheri vanno oltre il feticismo dell’immagine, alla ricerca di nuovi paradigmi simbolici. Si tratta di costruzioni squisitamente personali della realtà, della situazione politica e dei cambiamenti sociali che sfuggono a qualsiasi associazione diretta e si articolano in visioni entro le quali il tempo non rappresenta più un presente, ma la nuova e fresca immagine di un’altra esistenza.

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